Don Maurizio Cacciola, cappellano dell’Ospedale di Magenta, racconta il momento di emergenza coronavirus all'interno della struttura sanitaria. «La Fede è un grande aiuto»
«Come sto? In trincea», Don Maurizio Cacciola, cappellano dell’Ospedale di Magenta risponde a una domanda non più scontata oggi, in piena emergenza coronavirus. Le sue giornate sono cambiate drasticamente, un po’ come tutti noi, ma con la differenza che lui è in prima linea, insieme a medici, infermieri, nel dare conforto a pazienti e famigliari.
«Si combatte tutti i giorni, come tutti gli altri e con tutti gli altri», afferma, spiegando che nella struttura ospedaliera magentina è stato adibito un intero piano, il nono, ai ricoveri per Covid-19. «Anche qui entro, pur con tutte le precauzioni; se vengo chiamato, vado». Racconta la crescita esponenziale di casi di ricovero: le camere che all’inizio ospitavano un paziente ora ne contengono tre, per cercare di curarne il più alto numero possibile. «Credo siano alloggiati tra i trenta e i quaranta». Ogni volta che entra viene vestito e predisposto all’accesso nel reparto: sopracamice, guanti, mascherina, visiera.
Coronavirus: come la vivono i pazienti dell’ospedale
C’è una richiesta in particolare di conforto spirituale da parte dei pazienti del piano? «Non tanto da loro, quanto dai familiari, dagli infermieri e dai dottori che chiamano quando la situazione si fa critica». Racconta dell’ultima volta in cui è passato qualche giorno fa: «Ho incontrato la figlia di una paziente ricoverata in oncologia, che assisteva quotidianamente la mamma, malata terminale. Purtroppo l’anziana signora è mancata e lei non ha potuto esserle accanto né poterle dare l’estremo saluto e nemmeno accompagnarla al cimitero. Mi ha toccato molto la sua tristezza, la sua angoscia». Si comprende così il dramma e l’impotenza di questa figlia e di tutti coloro che sperimentano gli effetti dell’isolamento, ma anche la preoccupazione di chi arriva in ospedale per altri motivi (un incidente, per esempio) e ha paura di contrarre il virus stando lì come degente.
Un grande sostegno in piena emergenza Covid-19: la Fede
La Fede è un sostegno chi si trova in questa situazione anormale. «È un grande aiuto: anche nel momento dell’unzione agli infermi, mi è capitato di sentir rispondere volentieri alle invocazioni la persona cui la impartivo. Ma la Fede conforta anche gli altri pazienti ricoverati negli altri reparti: sono contenti di vedermi, potendo parlare con loro. Sono proprio loro a chiedermi se è possibile pregare ed è bello cogliere questa esigenza di fede. Io quasi attendo che siano loro a chiedermelo, lasciando così esprimere liberamente questo desiderio».
Anche all’interno della cappelletta c’è sempre presenza di fedeli, pur mantenendo le debite distanze precauzionali. «Prima c’era più presenza di pazienti e di parenti, ora vedo sostare più spesso medici e infermieri. Anzi proprio loro mi hanno richiesto di andare a benedire il nuovo pronto soccorso. È la prima volta che più persone mi cercano con particolare insistenza per benedire nuova struttura». Il personale sanitario è certamente sotto pressione in questo periodo, specie quelli del reparto dedicato all’emergenza coronavirus.
Ma anche le giornate del cappellano sono ormai completamente dedicate all’ospedale: mentre prima seguiva, come sacerdote, anche altre realtà e iniziative pastorali nel territorio, pur seguendo e avendo cura dei pazienti e delle necessità ospedaliere, ora è chiamato a una presenza assidua al nosocomio magentino. «Sto persino imparando una nuova lingua, per assistere un paziente che era stato ricoverato in psichiatria: via telefono me la sta insegnando, lui è contento di avere qualcuno con cui scambiare due parole nella lingua madre, io approfitto per mettermi di nuovo a studiare», dice sorridendo.
La Fede messa alla prova: l’analogia tra regimi totalitari ed emergenza coronavirus
Don Maurizio è un prete abituato alla “prima linea”: prima come prete diocesano missionario fidei donum in Albania, dove ha trascorso 9 anni. Una terra in cui la fede cristiana, negli anni del regime comunista, era avversata aspramente. Ci sono dei tratti simili tra i cristiani che vivono oggi l’emergenza coronavirus e chi ha vissuto e vive in Paesi condotti con regimi totalitari? «Beh, mi raccontavano che all’epoca del comunismo in Albania non ci si poteva neppure fare il segno della croce in pubblico. Ravvedo qui da noi oggi un’analoga esigenza e desiderio di seguire la celebrazione liturgica. In Albania sono state anche fatte esplodere delle chiese e, una volta decaduto il regime, alla prima Messa hanno partecipato 50mila persone e non tutte cattoliche: c’erano ortodossi e persino musulmani. In un periodo in cui manca la possibilità di esprimere la propria fede, il desiderio cresce e noi sacerdoti ce ne stiamo accorgendo. Il giorno che anche noi potremo celebrare finalmente la Pasqua, che non sono sicuro che sarà quella prevista dal calendario quanto quella in cui ci riuniremo finalmente a Messa, penso che anche qui assisteremo a una partecipazione entusiasta e numerosa».
In una società in cui prevale la solitudine, acuito dalle forme di comunicazione social, «ci accorgiamo che non basta il web, non basta lo smartphone e i social network: c’è bisogno del contatto umano. Ce ne stiamo accorgendo del bisogno di Comunità, di Dio che ci riunisce attorno alla sua mensa», conclude il sacerdote.
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