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Analisi dei vizi, dalla superbia alla lussuria

Analisi dei vizi, dalla superbia alla lussuria

Vizio o virtù? Cosa ci contraddistingue per davvero? Parte della nostra identità è fondata proprio sui vizi che nel tempo hanno cambiato significato

“L’uomo va giudicato soprattutto dai suoi vizi; le virtù si possono fingere; i vizi invece sono sempre genuini”. Prendiamo spunto da questa citazione di Klaus Kinski, per realizzare una piccola verità, cioè che parte della nostra identità è fondata proprio sui vizi.

Sono quegli aspetti che ci caratterizzano, che ci motivano, che ci fanno stare meglio con alcune persone rispetto ad altre e quindi ci spingono a frequentare determinati ambienti rispetto ad altri. Ma benché culturalmente questi vizi abbiano un’accezione negativa è innegabile che siano il carburante di questa complessa macchina chiamata società moderna.

Prima di addentrarci in una esplorazione psicologica del concetto di vizio è utile ricordare che nel corso del tempo questo termine ha cambiato il suo significato più volte. Nel Medioevo infatti i vizi non sono più concepiti come il risultato di cattive abitudini ma volontarie e consapevoli trasgressioni e opposizioni alla volontà di Dio.

Tommaso d’Aquino li elencherà nella Summa Theologiae come vizi capitali nella forma tradizionale giunta sino ad oggi. Nella teologia morale, i vizi capitali vengono assimilati ai peccati capitali (superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira e accidia), quando siano considerati non nell’individualità dell’atto, ma come abitudini.

Nell’Illuminismo si attenua la differenza tra i vizi e le virtù ed anzi si avanza una completa rivalutazione dei comportamenti viziosi. Osserva Bernard de Mandeville che certamente il vizioso non cerca altro che la soddisfazione dei suoi vizi ma «la sua prodigalità darà lavoro ai sarti, ai servitori, ai profumieri, ai cuochi e alle donne di vita: tutti questi a loro volta si serviranno dei fornai, dei falegnami ecc.» avvantaggiando tutta la società nel suo insieme.
Quindi il vizio è necessario poiché la ricerca della soddisfazione egoistica del proprio interesse è la condizione prima della prosperità. Una visione invece Freudiana vede il vizio come una patologia…

Cosa dire rispetto alle virtù, considerata l’antitesi del vizio? Si può forse ben riassumere con un po’ di ironia attraverso la locuzione latina «Video meliora proboque, deteriora sequor» che tradotta letteralmente, significa: «Vedo le cose migliori e le approvo, ma seguo le peggiori».

Analizziamo ora questi vizi nel dettaglio:

Superbia: in termini generali si può descrivere la superbia come la pretesa di meritare per se stessi, con ogni mezzo, una posizione di privilegio sempre maggiore rispetto agli altri. Da un punto di vista psicologico, la superbia può essere vista come espressione di un narcisismo che impedisce di vedere l’altro con il quale si tende a stabilire un rapporto marcatamente asimmetrico. Questo atteggiamento può essere associato ad una immagine grandiosa del sé. Questa immagine molto spesso è una forma di difesa atta a generare un sentimento di superiorità che ci rende “invulnerabili” a critiche ed attacchi.

Avarizia: è la scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede. Generalmente viene associata con il timore di una perdita e con l’accumulo di denaro/potere (avidità). In altri termini si può dire che l’avaro deleghi la sua sicurezza al denaro ed ai beni materiali in generale, nei confronti dei quali può arrivare ad avere un atteggiamento di attaccamento morboso.
L’avarizia può essere ritenuta dannosa per la società, poiché appare ignorare il benessere degli altri a favore del proprio nonostante sia diventata più accettabile (e il termine meno frequente) nella cultura occidentale.

Lussuria: è l’abbandono al piacere sessuale. In molte religioni viene vista come un peccato a causa della predominanza dell’aspetto istintivo animalesco contrario alla “beatitudine divina”. Da un punto di vista psicologico, oltre all’aspetto evidente del tema del “piacere” può essere una manifestazione di incapacità di trovare altre forme di ricompensa nella vita, altre attività che possano dare un altro genere di soddisfazione. Viene associata ai “chakra più bassi” legati alle energie materiali (contro quelle più sottili).

Invidia: (dal latino in – avversativo – e videre, genericamente guardare male, quindi “gettare il malocchio”) si riferisce a uno stato d’animo per cui, in relazione a un bene o una qualità posseduta da un altro, si prova spesso astio e un risentimento tale da desiderare il male di colui che ha quel bene o qualità. La questione psicologica principale è il confronto. Abituati ed educati a dover essere i migliori, viviamo in questa eterna competizione.

Gola: è il desiderio di ingurgitare più di quanto l’individuo necessiti. È l’ingordigia di cibi e bevande, condannata sia in quanto esempio di sfrenatezza e di lascivia al posto della modestia e del controllo di sé, sia come ingiustizia sociale in contrapposizione ai poveri che soffrono la fame. Può essere visto come un bisogno di accumulo, una paura soffrire la fame per cui bisogna prepararsi per ogni eventualità. Da un altro punto di vista può essere vista come una mancanza di freni, incapacità a controllare l’istinto alla ricerca di un piacere fisico nonostante in alcuni casi sia causa di molti problemi di salute.

Ira: si riferisce a un comportamento che, superando i limiti moderatrici della ragione, esprime una passione che trova sfogo e soddisfazione in offese verbali o fisiche nei confronti di chi ha causato la reazione difensiva o aggressiva. Come si deduce dalla stessa descrizione, anche in questo caso la ragione viene lasciata da parte a favore dell’istinto con la conseguenza che se non si riesce a controllare l’ira se ne viene controllati (e a quel punto ci faremo molta terra bruciata attorno).

Accidia (o acedia): è l’avversione all’operare, mista a noia e indifferenza. Il dolce far nulla. Naturalmente associato a pigrizia ed indolenza a volte ci possono essere messe in atto forme di accidia più sottili. Anche il riempirsi di attività può essere una forma di accidia. L’essere completamente assorbito in molte attività è una forma di anestesia.

Paolo Praticò
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