Spesso si tende a credere che le radici “del male” siano al di fuori della nostra vita, della nostra casa... Ma è proprio vero? Siamo così immuni dalla banalità del male?
Siamo agli inizio degli anni ’70, nel mondo vi è un clima di profonda tensione per il prolungarsi della guerra nel Vietnam. Ogni giorno la stampa riporta casi di atrocità e barbarie fuori del comune ed ogni giorno i vertici dell’esercito americano assicurano che quegli atti sono perpetuati da singole “mele marce” devianti, sottolineando che il sistema di gestione “è pulito”.
Un professore della Standford University, Philip Zimbardo, per dimostrare la tesi opposta, cioè che le persone di per loro sono “neutre” ma vengono influenzate dal sistema in cui sono collocate e nello specifico dalla posizione assegnata loro, mise a punto un esperimento che passerà alla storia come l’Esperimento Carcerario di Standford (su cui nel 2015 hanno anche prodotto un film).
Per svolgere l’esperimento, Zimbardo riprese alcune idee relative alla deindividuazione, la quale sostiene che gli individui di un gruppo coeso costituente una folla tendono a perdere l’identità personale, la consapevolezza, il senso di responsabilità, alimentando la comparsa di impulsi antisociali. Nello specifico l’appartenere ad un determinato gruppo farà sì che i singoli individui perderanno le proprie peculiarità per omologarsi al dato gruppo.
L’esperimento
Vennero selezionati 24 studenti universitari giudicati fra i più equilibrati, maturi, e meno attratti da comportamenti devianti e furono poi assegnati casualmente al gruppo dei detenuti o a quello delle guardie. I carcerati vennero rinchiusi in 3 celle separate e venne loro obbligato di indossare divise sulle quali era stato applicato un numero, sia davanti che dietro, un berretto di plastica e una catena alle caviglie. Le guardie invece avevano una uniforme colore kaki, occhiali da sole riflettenti per impedire di essere guardati negli occhi, avevano in dotazione un manganello, il fischietto e le manette. Erano anche autorizzati a prendere provvedimenti a loro discrezione per mantenere l’ordine nella prigione.
Dopo solo due giorni si verificarono i primi episodi di violenza, i detenuti venivano chiamati per numero e venivano vessati sia fisicamente che psicologicamente. Ad esempio, venivano svegliati durante la notte per fare “le conte”, venivano denudati e fatti dormire nelle spine come punizione, vennero costretti a cantare canzoni oscene, defecare in secchi che non potevano vuotare oppure pulire le latrine a mani nude. Alcune guardie si erano identificate così tanto nel proprio ruolo che una di esse prese il nome di Jonh Wayne.
Dopo un tentativo di fuga sedato violentemente dalle guardie, nella prigione si fece un clima via via più alienante in cui i prigionieri ormai docili e pacifici cominciavano a dare seri segnali di squilibrio mentale. Uno di esse venne fatto uscire e rimpiazzato da un sostituto, un altro prigioniero si appellò al diritto di avere un avvocato e fece arrivare nella prigione un parente esperto in materia. Il rapporto con la realtà sembrava compromesso da seri disturbi emotivi mentre le guardie diventavano sempre più sadiche e vessatorie.
Al quinto giorno i ricercatori, resosi conto della deriva che aveva preso l’esperimento, furono costretti a terminarlo anzitempo del dispiacere delle guardie e la soddisfazione dei detenuti.
Conclusioni
Questo esperimento ha dimostrato, seppur con alcuni risvolti drammatici, la tesi del professor Zimbardo. Persone “assolutamente nella norma” assegnate casualmente ad un determinato gruppo di appartenenza, nel giro di poche ore avevano già interiorizzato il ruolo assegnato al punto tale da perdere gran parte dei tratti di personalità emersi prima dell’inizio dell’esperimento.
Tutto ciò fa riflettere, soprattutto rispetto al “io non farei mai una cosa del genere”. Questa è la dimostrazione che persone “normali” possono diventare i nostri stessi carnefici, ecco perché si parla di “Banalità del male”.
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