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Educare ancora, educare sempre, educare insieme

Educare ancora, educare sempre, educare insieme

Da Macerata a Magenta. Una seria riflessione sui tragici eventi e il bisogno di un'alleanza educativa

Gli orribili fatti di Macerata ci invitano al silenzio per una seria riflessione. Gli scomposti commenti da una parte e dall’altra e la strumentalizzazione di questo dramma sono un segno, a mio giudizio, di altra violenza che può generare ancora fatti incresciosi e tragici come quelli.

Faccio mie a tale proposito le parole del Vescovo di Macerata: “Questo è un nostro fallimento. Povera vittima, povero assassino, povero giustiziere…E povera società nostra che li ha generati. La vicenda della ragazza ci dice che non siamo capaci di educare. Trasmettiamo illusioni, lasciamo aperte le scorciatoie più pericolose… Riguardo l’assassino: non basta accogliere, occorre integrare. Accogliamo in maniera superficiale. La nostra è un’accoglienza che dura tre mesi e poi abbandoniamo quelli che abbiamo accolto al circuito della malavita. Dobbiamo avere pietà anche per l’uomo che ha sparato per vendicare la ragazza. Sono tre vinti e prima ancora tre creature restate sole. La Chiesa non ha responsabilità? La Chiesa vive i limiti di tutti. Dovremmo essere i primi a convertirci per aiutare a un riscatto collettivo”.

Mi pongo allora la domanda: come superare questo fallimento? Trovo una sola risposta che mi convinca: educare ed educare insieme ed educare creando un’alleanza educativa tra tutti: famiglia, scuola, comunità civile, comunità cristiana, mondo dello sport, associazioni.

Mi inserisco anch’io nel lavoro di riflessione e di confronto sulle nuove generazioni (iniziato lo scorso 30 gennaio con il ciclo di incontri, dal titolo “I giovani protagonisti. Non ci sono più i giovani di una volta”, sulle potenzialità e le fragilità dei ragazzi nati nell’era digitale), suggerendo – quasi a modo di slogan, che slogan non sono – tre appelli, o forse meglio tre attese o desideri che ho in cuore quando guardo un giovane.

I primi due riguardano tutti i giovani, il terzo quelli che desiderano vivere la fede.

1. La Libertà divenga responsabilità
La libertà senza responsabilità è individualismo, quella maniera di immaginare la vita per cui ognuno di noi è l’intero universo e tutto il resto dovrà fare i conti con noi.
La libertà con la responsabilità è invece personalismo, quella maniera di immaginare la nostra vita come esseri che trovano la realizzazione di sé nella relazione: relazione con Colui da cui viene la nostra vita, relazione con gli altri.
La libertà individualista è giungla. La cultura del nostro secolo, largamente individualista, rischia di divenire una delle minacce più gravi per la comunità. Non c’è speranza per un’umanità che dovesse camminare sul sentiero dell’Io e solo Io. C’è speranza solo dove la libertà diventa responsabilità.

2. Gli slanci divengano scelte
La cultura che viviamo oggi può favorire i giovani negli slanci, ma non sempre favorisce le scelte: gli slanci che non divengono scelte sono come grida nel vuoto.
Un giovane che voglia costruire una propria maturità e assumersi degli impegni verso gli altri non può lavorare senza fatica.
Diventa necessario, allora, prevedere un cammino nell’arco di diversi anni e non scoraggiarsi, non lasciarsi prendere dalla “non voglia”.
Permettere alla “non voglia” di impedirci di fare, vuol dire non permettere a se stessi di crescere.
Bisogna arrivare a una determinazione che ci accompagni nel tempo, perché è solo così che si formano personalità capaci di scelte costanti e coerenti.

3. La fede diventi capace di ascolto e di testimonianza
È questa la grande attesa della Chiesa continuamente ribadita da Papa Francesco e dal nostro Vescovo Mario: la fede dei giovani deve lasciarsi educare ad accogliere la Parola e a testimoniarla con coraggio e convinzione.
Sono i giovani che devono diventare il luogo della presenza e della manifestazione della Chiesa perché, se i giovani fanno questo, la Chiesa ha i testimoni più efficaci nei confronti di tutta la gioventù e ha testimoni per il futuro.
L’ascolto e la testimonianza vanno di pari passo. Sono come diastole e sistole del cuore.

Al riguardo è importante distinguere da una parte la capacità di dire le parole della fede e dall’altra l’avere fede.
Il rischio è che le nostre parole, anche quelle della fede, potrebbero essere molto più avanti di noi. C’è una grande differenza tra il dire alcune parole della fede e il fare una reale esperienza spirituale: a questa noi dobbiamo puntare. Se noi pensiamo di poterne fare a meno, il risultato è scontato: una testimonianza di fede insignificante e scialba.

La gente che vive nella società secolarizzata di oggi ha bisogno di incontrasi con testimoni del Dio vivente, ed è ciò che avviene quando una persona che parla di Dio parla prima con Dio.
Sul vetro della finestra dell’Università di Padova negli anni attorno al ’68 in periodo di grande contestazione, in cui si teorizzava la morte di Dio, uno studente aveva scritto: “Dio non è morto. Gli ho parlato stamattina”.
Io sono sicuro, sono pronto a scommettere che un giovane (e prima di lui un adulto che vuole educare) che in questo periodo è pronto a fare una reale esperienza spirituale costruisce il fondamento di tutta la propria vita con il coraggio di viverla responsabilmente da adulto nella famiglia, in oratorio, nella comunità, nella vita sociale.

Concludo queste semplici tracce di riflessione, ricordando che questo 2018 è anche l’anno del Sinodo dei Vescovi: “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”. Il Papa vuole che questo Sinodo non sia solo sui giovani, ma con e dei giovani. Essi sono veramente accolti nelle comunità cristiane e nella stessa società, se non sono soltanto destinatari dei nostri pensieri e interventi, ma se li rendiamo protagonisti del loro domani.
Ad ogni giovane, e ad ogni educatore, l’augurio per un cammino che conduca tutti e ciascuno alla profonda verità di noi stessi.

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