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Astorri, da Boffalora all’Oscar italiano del teatro

Astorri, da Boffalora all’Oscar italiano del teatro

Il candidato a migliore attore al Premio Ubu 2017, parla di teatro e lancia una proposta: «Mi piacerebbe curare la programmazione di un piccolo teatro locale»

Alberto Astorri

Incontrare Alberto Astorri, con cui ci conosciamo da anni, è piacevole, ma non è facile: il mestiere di attore teatrale lo porta a girare tutta Italia. Da qualche anno è tornato a vivere a Boffalora Ticino, dove è cresciuto: «Oggi sto via da casa meno tempo, una volta si facevano tournée da 5-6 mesi; attualmente non è più possibile perché è sempre più difficile fare teatro». Fare l’attore è un lavoro molto impegnativo e complesso, per lo meno in Italia. Ma in lui brucia ancora forte la passione per un mestiere antichissimo, ma ancora attuale, che svolge con riconosciuta bravura. Proprio per questo è candidato come migliore attore al premio Ubu. Fondato 40 anni fa, è considerato il riconoscimento più importante in Italia, il corrispondente nazionale per il teatro del premio Oscar statunitense o dei David di Donatello italiani per il cinema. Tanto per capire il livello, il Premio Ubu ha incoronato migliori attori autentici “mostri sacri” come Vittorio Gassman, Dario Fo, Carmelo Bene, Giorgio Albertazzi. Per questo colgo l’occasione per intervistare uno dei finalisti al premio, che verrà designato il prossimo 16 dicembre, per comprendere dove sta andando il teatro e per comprendere quale importanza ancora oggi abbia.

Fare teatro oggi è ancora possibile?
«Credo che il grado della civiltà di un Paese si misuri dalle possibilità offerte al teatro. Una realtà che è nata in Grecia, con la democrazia, e non è un caso: era ed è ancora l’unico luogo fisico in cui l’assemblea costituita dagli spettatori, i cittadini, si ritrovano e attraverso l’artista si rispecchiano in quelli che sono gli interrogativi profondi relativi all’epoca in cui viviamo.

Ancora oggi, nel tempo teatrale, gli spettatori stanno insieme e vedono qualcosa che li rispecchia profondamente, che ha a che fare con la loro vita. L’arte serve a porre domande, questioni fondamentali, non nasce per dare risposte. Il teatro, prima ancora che emergesse la figura fondamentale dell’attore, nacque come coro, ossia come espressione d’insieme, come assemblea dei cittadini. Per questo il teatro è un’espressione politica e deve continuare a esserlo, perché deve affrontare davvero le questioni fondamentali che riguardano tutti noi, deve “avere a cuore le sorti della città”, che è il significato originale di “politica”.

Oggi non è più così, ma pensiamo alla forza dirompente che assunse nella Grecia antica. Platone, riferendosi all’arte, affermò che esercitava una funzione negativa, trasformando la vita delle persone, tanto che nella Repubblica si auspicava di allontanare gli attori. Nel momento presente il teatro è una forma di resistenza».

Il Sogno dell’arrostito. Con Paola Tintinelli.
Foto di Gabriele Gomez

Quale finalità ha fare teatro e viverlo da attore e da spettatore?
«Produrre bellezza, che è uno degli scopi di fare teatro “dal vivo”. Ribadisco “dal vivo” perché oggi siamo talmente assuefatti dallo schermo che a volte non ci si rende conto che gli attori che calcano il palcoscenico sono lì, in quel momento. Mi è capitato e mi capita di vedere illuminarsi i display degli smartphone e accade perché lo spettatore pensa che tu non li veda. Ma l’attore in scena si accorge di qualunque cosa accada. Il pubblico di oggi, o almeno buona parte, è convinto che lo spettacolo dal vivo possa andare avanti a prescindere da quello che lui faccia. Questo è assurdo, soprattutto perché andare a teatro è una scelta, non un’imposizione.

Andare a teatro è vivere una bellezza per poi rivendicarla nella vita di tutti i giorni. Una volta che si assiste a uno spettacolo se ne esce cambiati. Per questo il teatro assume un significato rivoluzionario. Inoltre, la bellezza del teatro è che ti porta a pensare con la tua testa, per l’attore e per lo spettatore. La stessa etimologia di “teatro” è “visione”, quindi non quello che tu realmente stai vedendo, ma quanto accade nella tua mente. Il mestiere dell’attore è quello di aumentare la qualità della vita, del suo essere in scena, con una precisa qualità di movimenti, di respiro. Eduardo De Filippo amava dire che “il teatro significa vivere bene quello che nella vita recitiamo male”».

Qual è lo stato di salute del teatro e dell’attore?
«Per molti versi lo considero un mestiere in via di estinzione. C’è una profonda differenza tra teatro e spettacolo: quest’ultima è assimilabile a una vera e propria industria. Quando si snocciolano cifre per mostrare un maggior numero di abbonamenti a teatro rispetto al calcio si fa riferimento proprio all’industria dello spettacolo che è un’altra cosa rispetto al teatro, che è più un’esperienza che una persona vive sì insieme agli altri, ma a livello individuale e profondo.

Il teatro vero comincia fuori dalla sala, lo spettacolo finisce nella sala. In Italia l’80% delle stagioni dei teatri nazionali sono fatte di rappresentazioni di autori classici. Va benissimo, ma ci sono anche autori viventi che scrivono molto bene. L’autore classico è possibile rivisitarlo in chiave contemporanea, ma ci sono ancora rappresentazioni in costumi dell’epoca. Il teatro, invece, si deve confrontare col presente».

Foto di Gabriele Gomez

Qual è il tuo autore preferito e che porteresti volentieri in scena?
«Sicuramente Shakespeare. Lo considero l’autore più profondo e geniale che il teatro abbia avuto in assoluto e ancora oggi può offrire chiavi di lettura attuali. Ma amo molto autori contemporanei come Andrea Cosentino, Rosario Palazzolo o Lucia Calamaro, drammaturga romana che spopola in Francia».

Qual è il tuo metodo di lavoro per portare in scena una pièce?
«Dipende: se si parte da un testo, si deve entrarci dentro, studiarlo, scardinarlo, capire i meccanismi che mette in moto il testo, oltre al significato, dando valore alla sua… partitura musicale. Perché il teatro fondamentalmente è musica, ritmo, i movimenti impliciti. E poi si va a lavorare con gli attori, stabilendo relazioni, dinamiche e personaggi. Se invece si parte da un’idea occorre sviluppare una drammaturgia. Anni fa feci uno spettacolo con Davide Iodice, che partì da una domanda: cos’è la bellezza oggi? Costruì la rappresentazione raccogliendo idee e materiali che prendevano dall’arte, dalla poesia, dagli stessi testi teatrali per scrivere un’opera inedita che venne preparata passo dopo passo».

Da anni fai coppia artistica con Paola Tintinelli, lavorando in duo, ma nel tuo percorso ti sei confrontato con monologhi o spettacoli con più attori. Come cambiano le dinamiche?
«Io e Paola facciamo un lavoro più autorale, libero, facendo ciò che ci piace. Non è scontato, perché spesso ci sono produzioni imposte. In questi dieci anni di lavoro siamo diventati una realtà conosciuta e apprezzata a livello nazionale, vincitrice per ben due volte del Premio In-Box e di numerosi riconoscimenti della critica, abbiamo un percorso molto originale della messa in scena. Quando lavoro da attore in compagnia, ho a che fare con un regista che mi dirige. È comunque una bella esperienza, ma meno libera».

Veniamo invece alla tua candidatura come miglior attore al Premio Ubu 2017 nella commedia “Un quaderno per l’inverno” di Armando Pirozzi: se dovessi vincerlo, come potrebbe cambiare la tua vita professionale?
«A livello economico niente (ride), a livello professionale molto. In merito alla commedia che mi vede protagonista, è una bella storia che ha come protagonista il ruolo della poesia, della sua forza miracolosa e della sua carica vitale, capace di salvare la vita delle persone. Lo porteremo a Milano il 2 febbraio».

Tra l’altro, ti vedremo anche prossimamente al cinema…
«Sì, a primavera uscirà nelle sale il film del Terzo Segreto di Satira, presentato al Festival del Cinema di Roma, intitolato Si muore tutti democristiani. Per la verità, cinema ne faccio poco, ma non perché non me lo propongano, ma perché mi dedico fondamentalmente all’arte della scena, mia prima passione. Anticipo inoltre una produzione indipendente che mi vede coinvolto, con l’amico Paolo Garavaglia di Boffalora Ticino, che si è cimentato come ideatore e “produttore illuminato” in un film molto profondo e a tratti visionario, girato in Islanda e che concluderemo prima di Natale in Italia. S’intitolerà Sentieri Interrotti. Credo sia un segno davvero importante».

Ma ti vedremo anche coinvolto a livello locale?
«Chissà. Mi piacerebbe, ma soprattutto avrei le competenze e le capacità per dirigere uno spazio anche contenuto (100 posti) dove fare una programmazione seria di teatro contemporaneo con delle incursioni trasversali sulla società. Lancio la proposta: magari verrà raccolta da qualche amministrazione locale».

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